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Cambiamenti climatici: quanti eventi calamitosi dal 2010?

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Concentriamoci sull’Italia per renderci conto di quanto siano evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici. Legambiente indica la via da seguire
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Concentriamoci sull’Italia per renderci conto di quanto siano evidenti gli effetti dei cambiamenti climatici. Legambiente indica la via da seguire

I cambiamenti climatici sono sulla bocca di tutti, ma per capirne la portata e le conseguenze è bene che le parole siano supportate da dati e numeri. Come quelli riportati dall’Osservatorio Città Clima di Legambiente. Diamo un’occhiata.

Dall’analisi merge che gli effetti sempre più violenti dell’emergenza climatica, più volte descritti nei documenti degli scienziati dell’IPCC per supportare le politiche delle Nazioni Unite, sono ormai tangibili anche nel nostro Paese, tra i più esposti nel continente europeo.  Dal 2010 al 31 ottobre 2023 sono stati registrati dall’Osservatorio Città Clima 684 allagamenti da piogge intense, 166 esondazioni fluviali e 86 frane da piogge intense, che rappresentano il 49,1% degli eventi.

Bisogna intervenire con urgenza

L’intensificazione degli eventi estremi, insomma, è ormai più che evidente e dobbiamo fare in fretta. Ma è doveroso anche fare un passo indietro nella memoria e nel tempo, perché l’acuirsi della crisi climatica e dei suoi effetti sui territori non deve farci perdere di vista le fragilità intrinseche del nostro Paese e non deve essere una scusa per nascondere le negligenze del passato. Troppo spesso, infatti, la crisi climatica e gli eventi estremi sono serviti a giustificare una pessima gestione del territorio, a nascondere un eccessivo consumo di suolo e la mancanza di politiche coraggiose per fronteggiare il dissesto idrogeologico.

Le drammatiche emergenze registrate negli ultimi anni - nord Marche, Ischia, Romagna e da ultima l’alluvione in Toscana - devono far riflettere sul modello di gestione del territorio. Non è solo un problema di risorse economiche, come spesso si vuole far credere, o di mancanze nella manutenzione ordinaria, pratica corretta e condivisibile ovviamente, se inserita in un contesto più ampio. Il problema principale sta nel voler rispondere alla logica della “messa in sicurezza”, che ha visto nel corso dei decenni provare a difendere l’indifendibile, proponendo soluzioni, come l’innalzamento degli argini, che rendono sempre più fragile il territorio sulla base di calcoli e tempi di ritorno delle piene che la crisi climatica sta spazzando via più velocemente di quanto si pensasse. Un’emergenza, quella climatica, che in alcune aree del Paese, soprattutto nel meridione, aggrava una situazione di preesistente rischio causato da un abusivismo edilizio in aree già pericolose, raramente oggetto di demolizioni e rimasto colpevolmente impunito.

Prevenire è meglio che curare

Da sempre Legambiente - con altre associazioni ambientaliste ma anche insieme agli ordini professionali, alla Protezione civile, ai costruttori edili, alle Autorità di distretto - ha diffuso la cultura della prevenzione, che ruota attorno a due concetti cardine di buona gestione del territorio: il primo è quello della convivenza con il rischio, che si attua con la giusta attenzione ai piani di emergenza comunali, all’informazione e formazione dei cittadini, anche accettando che un evento alluvionale o franoso si verifichi, purché faccia meno danni possibili; il secondo è la consapevolezza che un territorio come quello italiano non ha bisogno di essere ulteriormente ingessato, cementificato, impermeabilizzato, ma all’opposto, sia necessario consentire che la dinamica naturale delle acque si sviluppi in modo compatibile con la presenza antropica. È illusorio pensare che il ricorso esclusivo alle opere strutturali risolva il problema. Al contrario, in questo modo si alimenta ulteriormente un uso del suolo sconsiderato, favorendo gli insediamenti e le attività antropiche in aree a rischio. Anche perché va considerato che eventi con portate più elevate di quelle per cui le opere di difesa sono state progettate saranno sempre più probabili nel futuro.